Le famiglie italiane non ce la fanno più, la crisi e le tasse riducono drasticamente le risorse; ma finalmente, grazie alle fantastiche doti interpretative dei testi legislativi proprie dell’Inps, ora gli italiani sanno finalmente chi sono i veri responsabili: gli invalidi totali.
Con una circolare, la 149/2012, l’Istituto diretto dal dott. Mastrapasqua ha cancellato in un baleno oltre trent’anni di consolidata consuetudine in merito ai requisiti reddituali per il rilascio delle pensioni di invalidità totale, ponendo i presupposti per un risparmio di notevole entità, sulla pelle di centinaia di migliaia di persone completamente inabili, cui verrà tolta l’unica fonte di sostentamento peraltro già di risibile entità (280 euro mensili circa di pensione e circa 500 di indennità di accompagnamento).
Con la circolare 149 l’Inps sfrutta di fatto un errore compiuto, e subito riconosciuto, dai legislatori che nello stilare la legge 33 del 1980 che nell’elevare i limiti reddituali per gli assegni di invalidità civile ha fissato per gli invalidi parziali un limite personale, mentre per gli invalidi totali ha stabilito un limite familiare.
Invece di rimediare all’errore legislativo, il Ministero dell’interno fisso per le Prefettute e i Comitati di Assitenza e beneficiari, allora competenti in materia, di considerare anche per gli invalidi totali il reddito individuale. Questa consuetudine si è consolidata negli anni ed è stata mantenuta anche dalla stessa Inps da quando assunse la competenza in materia nel 2007 (messaggio 9879 del 2007). Lo stesso criterio interpretativo è stato normalmente applicato dalla Magistratura del lavoto er ripetutamente confermato da sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale.
La sentenza della Corte di Cassazione numero 4677 del 2011 ha però ribaltato tale criterio stabilendo che per il calcolo dei requisiti reddituali dell’invalido totale si debba valutare anche il reddito del coniuge. Sulle basi di questo pronunciamento (è bene ricordare che le sentenze di Corte di Cassazione, soprattutto se non pronunciate a Sezioni Unite, rappresentano un orientamento giurisprudenziale che può essere motivatamente superato da altre sentenze) l’Inps mette in discussione 850mila pensioni di invalidità, creando delle inequità spaventose e paradossali: un invalido parziale e uno totale che guadagnano 4mila euro l’anno e hanno un coniuge che dichiara 15mila euro non saranno più trattati nello stesso modo; il primo riceverà la pensione, il secondo no.
“Inutile dire che levare una risorsa economica i per se limitata a famiglie che già fanno sacrifici incredibili per curare i propri cari è una cosa che uno stato civile non dovrebbe permettere” sottolinea amareggiato il presidente dell’Anmic di Parma Alberto Mutti, che ha già sollecitato tutti i parlamentari parmensi ad intraprendere tutte le iniziative possibili per porre rimedio all’errore legislativo del 1980 (fosse stato corretto allora non saremmo in questa situazione) neutralizzando così l’ennesimo tentativo dell’Inps di fare cassa sulla pelle dei disabili.
Una situazione davvero incredibile, che non solo contrasta con trent’anni di interpretazione consolidata della legge, ma che rischia di tornare in equilibrio soltanto con la ventilata possibilità che l’Inps applichi il criterio familiare anche agli invalidi parziali..
Il presidente Mutti chiude con un auspicio: “Chiediamo all’Inps di non applicare la circolare, almeno fino a che il nuovo Parlamento che verrà eletto a febbraio possa interessarsi della questione. In tal senso sarebbe auspicabile che tutta la materia venga rivista e raccolta in una legge quadro che stabilisca regole e criteri una volta per tutte, evitando che i diritti conquistati con oltre cinquant’anni di lotte debbano essere continuamente difesi da attacchi ingiustificati”